Il Dott. Pietro Putignano, Specialista in Endocrinologia e Malattie del Ricambio presso l’Ospedale San Gerardo di Monza, approfondisce il legame tra diabete e dislipidemie, in particolare segnala la crescita, anche nelle fasce d’età più giovani, della cosiddetta diabesità: cioè l’obesità associata al diabete, che determina un sensibile aumento del rischio cardiovascolare.
Un trattamento di supporto con farmaci a base di Omega-3 permette però di ottimizzare i risultati terapeutici, abbassando i livelli di grassi nocivi nel sangue.
Diabete e dislipidemie
Circa il 5-6% della popolazione italiana adulta (1,5 – 2 milioni di persone) soffre di diabete di tipo 2, e 3/4 di questi pazienti presentano delle alterazioni lipidiche.In particolare si parla in questi casi di dislipidemia aterogena, con trigliceridi alti, bassi livelli di HDL colesterolo buono, e LDL (colesterolo cattivo) tendenzialmente piccole e dense. Il tutto spesso associato a glicemia alta, ulteriore causa di aumento dei trigliceridi, e a un disturbo chiamato insulino-resistenza, cioè la bassa capacità dell’insulina di esercitare un effetto biologico a livello dei tessuti bersaglio, che contribuisce ad abbassare l’HDL colesterolo.
Con l’avanzamento dell’età e con l’aumento di peso, si avrà una maggiore prevalenza di questi disturbi, affrontabili con una terapia specifica in base al fenotipo lipidico, ovvero alla tipologia di grassi riscontrati nel paziente.
Problema diabesità
All’aumentare di sedentarietà e stili di vita scorretti, soprattutto nelle fasce giovanili, e addirittura nei bambini, si assiste parallelamente alla crescita di un fenomeno epidemiologico che si chiama diabesità: cioè l’obesità associata al diabete di tipo 2.La causa principale è un eccessivo consumo di “junk food”, il famigerato cibo spazzatura, associato a scarsa attività fisica. L’elevato contenuto di grassi e zuccheri di questi alimenti, costituisce un connubio micidiale che favorisce la comparsa della cosiddetta sindrome da diabesità.
L’obesità, soprattutto quella viscerale, è collegata infatti a un’alterazione del segnale insulinico che si chiama insulino-resistenza, detta in gergo medico il “motore patogenetico” del diabete mellito di tipo 2.
La stessa obesità determina anche una serie di meccanismi infiammatori nell’organismo, con la predisposizione verso alcune alterazioni, come la steatosi epatica, i trigliceridi alti, l’iperglicemia e la presenza di HDL basso.
Se al crescere dell’obesità cresce dunque anche il rischio di sviluppare diabete e complicanze cardiovascolari, quando un soggetto va considerato obeso?
La formula più comunemente utilizzata è quella dell’Indice di Massa Corporea – Body Mass Index, cioè il rapporto tra peso e altezza, ottenuto dividendo il peso in kg del soggetto con il quadrato dell’altezza espressa in metri.
Un risultato inferiore a 25 indica un soggetto normopeso; tra 25 e 30 si parla di sovrappeso; superiore a 30 significa obesità.
I rischi
Nel determinare il rischio cardiovascolare del paziente è necessario considerare l’interazione tra ipertensione arteriosa, glicemia e lipidi. Quindi l’obiettivo terapeutico è quello di ridurre il rischio cardiovascolare complessivo del paziente attraverso un’azione mirata, che comprenda lo stile di vita e l’uso di farmaci specifici per ridurre il colesterolo LDL, i trigliceridi, la pressione arteriosa, il peso corporeo e l’emoglobina glicata, entro i limiti stabiliti per quel singolo paziente.Un ruolo cruciale nel paziente diabetico è rivestito in particolare dal colesterolo LDL, infatti le linee guida raccomandano come prima cosa di abbassare i livelli di questo grasso nel sangue.
Naturalmente la presenza associata di altri fattori di rischio, quali fumo, età e ipertensione arteriosa contribuisce ad aumentare il rischio di insorgenza di eventi cardiovascolari futuri nel singolo paziente.
Prevenzione e terapia
Sia per i soggetti a basso e medio rischio, sia per quelli ad alto rischio, come per esempio i pazienti con diabete mellito di tipo 2 e di tipo 1 o ipercolesterolemia familiare, una corretta alimentazione basata sulla dieta mediterranea deve essere alla base di ogni trattamento, insieme all’esercizio fisico. L’imprescindibile approccio dietetico può però non essere sufficiente in alcune classi di pazienti: soprattutto per quelli che presentano dislipidemia severa di carattere genetico-familiare. In questi casi va affiancato un trattamento farmacologico per cercare di raggiungere il target lipidico prefissato: ovvero una soglia specifica di colesterolo LDL – HDL e di trigliceridi, in dipendenza dal livello di rischio cardiovascolare del singolo paziente.I farmaci di riferimento sono gli inibitori della biosintesi del colesterolo, cioè le statine, molto efficaci nell’abbassare l’LDL, ma non altrettanto nel ridurre significativamente in tutti i pazienti anche i livelli di trigliceridi e a innalzare quelli di colesterolo HDL. Inoltre, alcuni pazienti sviluppano anche intolleranza muscolare alle statine, che rende ulteriormente difficile ottimizzare tutti i parametri lipidici.
È in questo quadro complesso che entra in gioco l’associazione con farmaci diversi, attivi sulle differenti tipologie di grassi. In particolare lo sviluppo di formulazioni di grado farmaceutico di Omega-3, con un livello standardizzato di acidi grassi polinsaturi (PUFA), permette di avere una riproducibilità degli effetti farmaceutici e farmacologici, e l’ottenimento del target lipidico più completo, nella quasi totalità dei pazienti a cui vengono somministrate.