Il Dott. Roberto Serra del Centro per lo Studio e il Trattamento Integrato dell’Obesità dell’Azienda Ospedaliera Università di Padova, ed Esperto on line di Trigliceridi&Colesterolo approfondisce le complicanze cardiovascolari e respiratorie a cui possono andare incontro i pazienti obesi.

Quando un paziente va considerato obeso?

La diagnosi di obesità viene effettuata calcolando l’indice di massa corporea, conosciuto anche come BMI, acronimo inglese di Body Mass Index. Questo è un numero che si ricava dividendo il peso del soggetto per il quadrato dell’altezza espressa in metri.
Un soggetto viene considerato nel range di normalità quando il suo BMI è compreso tra 18,5 e 25. Tra 25 e 30 si parla di sovrappeso. Oltre il 30 si ricade nell’obesità, che può essere di primo grado (BMI tra 30 e 35), di secondo grado (tra 35 e 40) e di terzo grado o obesità massiva quando l’indice di massa corporea è superiore a 40.
Tuttavia questa classificazione mostra diversi limiti. Il principale è rappresentato dal fatto di non prendere in considerazione la composizione corporea dell’individuo. Per fare un esempio grossolano, un soggetto alto 180 cm e 100 kg di peso, con un BMI di 31, potrebbe essere un individuo sedentario, ma anche un giocatore di rugby con le stesse misure e ben altro patrimonio muscolare.
Un altro limite importante è rappresentato poi dalla distribuzione del tessuto adiposo nel corpo; la sua disposizione a livello addominale, indipendentemente dal peso dell’individuo, è molto più a rischio per lo sviluppo di complicanze correlate all’obesità rispetto a quella a livello sotto-cutaneo, a causa degli effetti tossici secondari all’espansione del tessuto adiposo in ambito viscerale.

Qual è l’impatto dell’obesità in Italia?

L’obesità può essere considerata una vera e propria epidemia, che in particolare nel mondo occidentale, ma anche nei Paesi in via di sviluppo, ha assunto proporzioni preoccupanti, con un incremento esponenziale.
Gli ultimi dati pubblicati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità hanno censito una prevalenza di quasi 2 miliardi di persone in sovrappeso e, di queste, oltre 600 milioni obese. Oltre 40 milioni sono i bambini di età inferiore ai 5 anni che si possono considerare in sovrappeso.
Nel nostro Paese, l’ultimo “Rapporto Osservasalute” ha rilevato che più di un terzo della popolazione (35,6%) è in sovrappeso, e una persona su dieci è obesa (10,4%).
Allarmanti sono anche i dati che riguardano la popolazione pediatrica. Uno studio condotto su oltre 40.000 bambini della scuola elementare di età compresa tra 8 e 9 anni, ha rilevato che oltre il 22% è sovrappeso e di questi oltre il 10% francamente obeso. La prevalenza di obesità, sia per gli adulti sia per i bambini, dimostra una tendenza all’aumento dal nord alle regioni del centro-sud.

Quali sono i costi – sociali ma non solo – di questa patologia?

È molto difficile calcolare il costo globale di una patologia tanto articolata e che porta con sé molte complicanze.
All’aumentare della massa corporea corrisponde infatti un contestuale aumento di altre condizioni patologiche associate: patologie cardiovascolari, arteriosclerosi, insulino-resistenza, diabete, patologie osteo-scheletriche da sovraccarico, malattie neurologiche come la demenza, o respiratorie come la sindrome delle apnee ostruttive, steatosi epatica e alcuni tipi di neoplasie.
In uno studio recentemente pubblicato negli Stati Uniti si è comunque stimato che il costo attribuibile all’obesità e alle complicanze ad essa correlate è di oltre 250 miliardi di dollari, dei quali soltanto 50 miliardi sono legati a spese mediche dirette, e i restanti 200 riconducibili invece a perdita di produttività per insorgenza di complicanze e morti premature. Se si mantenesse l’attuale tasso di sviluppo dell’obesità nella società statunitense si ritiene che tali previsioni di spesa saranno quadruplicate entro il 2030. E in Italia la realtà non è molto differente.

Il rischio cardiovascolare nell’obeso è più elevato solo perché il cuore “fa più fatica”, o ci sono altri fattori che contribuiscono?

Sicuramente il lavoro a cui è esposto il cuore dell’individuo obeso è maggiore, e quindi più stressante. Ma non è questo il meccanismo di rischio principale. Un ruolo determinante è legato all’espansione del tessuto adiposo nel distretto viscerale, come sopra accennato, e pertanto anche a livello del tessuto miocardico. Il tessuto adiposo che si infiltra tra le cellule muscolari del cuore rilascia in questa regione sostanze che determinano l’innesco di un processo infiammatorio che danneggia il microcircolo. Per microcircolo si intende quella fitta rete di vasi microscopici che rappresentano le ultime diramazioni dell’albero coronarico. Le sostanze rilasciate dagli adipociti (le cellule adipose) prendono il nome di adipocitochine e favoriscono l’innesco di molteplici processi infiammatori, con ricadute negative sulla dinamica del circolo sanguigno.

Perché si determina l’infiammazione, quali tessuti interessa e cosa comporta a livello di rischio?

Le adipocitochine rilasciate dagli adipociti richiamano nel distretto microcircolatorio le cellule coinvolte nelle risposte infiammatorie, i monociti e i macrofagi. Queste, a loro volta, rilasciano radicali liberi e altre sostanze ossidanti. Ciò facilità l’adesione delle piastrine e l’innesco di un processo aterosclerotico, con formazione di placche sulla parete interna dei vasi.
Studi recenti hanno rilevato che anche il passaggio diretto di acidi grassi liberi nel sangue può facilitare l’innesco del processo infiammatorio nei distretti microvascolari.
Pertanto è fondamentale curare e prevenire lo sviluppo dell’obesità, ma anche educare i pazienti al consumo di pasti equilibrati con riduzione degli alimenti ricchi di grassi, quali formaggi, insaccati, condimenti eccessivi, soprattutto salse, facendo attenzione anche ai grassi “nascosti” negli alimenti. Penso soprattutto al consumo di pane al latte, pane in cassetta, crackers, grissini, ecc., che spesso si considerano solo fonte di carboidrati, mentre contengono spesso quantità elevate di grassi.

Il processo aterosclerotico rappresenta una conseguenza o un rischio correlato all’obesità?

Il processo aterosclerotico ha origini multifattoriali, ma un’alimentazione troppo ricca in colesterolo e una condizione di obesità possono facilitarne l’innesco, a partire dai distretti microcircolatori, per poi estendersi anche ai vasi di calibro maggiore.
In un lavoro effettuato in collaborazione con l’Unità di Cardiologia dell’Università/Azienda Ospedaliera di Padova e pubblicato su “Nutrition, Metabolism and Cardiovascular Diseases”, abbiamo evidenziato che la CFR (Riserva di Flusso Coronarico), cioè la capacità delle coronarie di rispondere ad uno stimolo faticoso con un aumento del flusso di sangue, risulta nettamente ridotta nei pazienti obesi rispetto a quelli normopeso, e questa osservazione è accompagnata anche da una condizione di maggiore infiammazione. La riduzione del peso porta invece a una normalizzazione della Riserva Coronarica e a uno “spegnimento” dei processi infiammatori.

Quando è necessario un trattamento per il colesterolo? Qual è il ruolo degli integratori alimentari di ultima generazione nel favorire la riduzione di questo grasso nel sangue?

Le linee guida delle società internazionali sono abbastanza concordi nel ritenere come riferimento per l’inizio di una terapia ipolipemizzante, la presenza di un rischio per eventi cardiovascolari superiore al 10% nei successivi 10 anni.
La percentuale viene calcolata sulla base di una carta del rischio cardiovascolare, con algoritmi che prendono in considerazione tutti i fattori di rischio correlati all’insorgenza di una patologia cardiocircolatoria o cerebrovascolare. Si basano sul sesso, l’età, l’abitudine al fumo, l’ipertensione arteriosa e il diabete.
La terapia di riferimento è rappresentata dalle statine, e l’efficacia del trattamento si valuta sull’obiettivo che si deve raggiungere, personalizzato per ogni paziente.
In pazienti a basso rischio il target è mantenere i livelli di colesterolo LDL al di sotto di 140 mg/dl. In presenza di pregressi eventi cardiovascolari o di diabete mellito, il limite di riferimento scende a 100 mg/dl. Qualora infine il rischio fosse molto alto, in pazienti che abbiano ad esempio già avuto un infarto miocardico acuto e abbia anche un diabete mellito conclamato, il target è <70mg/dl.
Soprattutto nei pazienti a rischio basso e moderato che non vogliono o non possono iniziare una terapia con statine, magari a causa di intolleranza al farmaco, possono poi trovare un impiego efficace i nuovi nutraceutici che vanno ad agire non solo sull’assorbimento, ma anche sulla sintesi e sull’ossidazione del colesterolo LDL.

Parliamo della terapia con Omega-3 specialità farmaceutica

Quando ci si trova in condizione di agire in maniera specifica per la riduzione dei livelli di trigliceridi, i cambiamenti di dieta e stile di vita possono non essere sufficienti e si rende necessario il ricorso a un trattamento farmacologico a base di Omega-3.
Questi sono acidi grassi essenziali, che cioè non vengono prodotti dall’organismo, e pertanto bisogna assumerli attraverso il consumo di alimenti che li contengano. In particolare pesce azzurro, noci e mandorle.
Gli Omega-3 hanno un’azione diretta sui trigliceridi circolanti, riducendoli, ma i loro benefici non si fermano qui.
Un aspetto forse poco noto ma molto importante, è che si tratta di molecole che esercitano un’azione antiossidante e antiinfiammatoria, in grado di contrastare il meccanismo di adesione delle piastrine alle pareti dei vasi e la conseguente formazione della placca aterosclerotica.
Come dimostrato da uno studio pubblicato su PLoS One, gli Omega-3 riducono la produzione di tutte quelle molecole pro-infiammatorie e molto nocive che gli adipociti possono rilasciare nel distretto vascolare (le interleuchine, il TNF, ecc…).
In definitiva riescono a “spegnere” quell’infiammazione cronica di basso grado di cui si diceva sopra, che si viene a instaurare in alcuni distretti a partire dal microcircolo.

Quali sono i vantaggi specifici dei farmaci rispetto agli integratori?

Le formulazioni farmaceutiche di Omega-3 consentono di assumere quantità adeguate di sostanza, senza correre il rischio di aumentare anche l’assunzione di Omega-6, che hanno struttura simile, sono contenuti sempre in molti alimenti, ma hanno effetti meno positivi. Da questo punto di vista le linee guida raccomandano di badare che il rapporto tra Omega-3 e Omega-6 sia bilanciato correttamente. Nella nostra alimentazione questo rapporto è solitamente di 10:1 a favore degli Omega-6; ristabilire un equilibrio significa portarlo circa a 4:1, perciò l’uso di prodotti farmaceutici a base soltanto di Omega-3 di qualità certificata può portare notevoli benefici.
Il vantaggio dei farmaci a base di Omega-3 è infatti la quantità controllata del principio attivo, ma anche il fatto che esiste una letteratura scientifica che mette in evidenza la loro efficacia in determinate situazioni ad alto rischio. Il semplice integratore non ha a supporto una tale mole di informazioni di elevato peso scientifico.

In conclusione diamo qualche consiglio generale di prevenzione del rischio

Oltre a consigliare ai pazienti di assumere i cibi in modo equilibrato e ben distribuito, dobbiamo impegnarci in una campagna di educazione e informazione per stimolare l’adozione di stili di vita proattivi. Incentivare l’attività fisica quotidiana, di tipo aerobico, ad esempio. Quest’ultima, da sola, si è dimostrata molto efficace nel cambiare il rapporto tra il cosiddetto colesterolo buono (HDL) e quello cattivo (LDL) a favore del primo.
Poi favorire l’aumento di consumo di pesce, evitare l’utilizzo di oli in cottura, ridurre il consumo di carni lavorate e conservate, sono tutti consigli su cui bisogna sempre insistere.
In definitiva, l’approccio dello Specialista deve essere a 360°, e non può limitarsi a una semplice lettura degli esami. Agire su tutti i fronti significa controllare ogni fattore di rischio correlato, fare educazione alla salute, spiegare l’importanza di fare i controlli necessari e di assumere i farmaci prescritti. Poi da ultimo saper consigliare i pazienti su come riposarsi adeguatamente. Le ore di sonno sono infatti fondamentali per un equilibrio metabolico adeguato.

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Ultimo aggiornamento: 20/07/2016