La Dott.ssa Maria Perticone, Specialista in Medicina interna al Policlinico Universitario di Catanzaro presso il Dipartimento di Medicina Sperimentale Clinica ed Esperto on line su Trigliceridi&Colesterolo, spiega cosa si intende per sindrome metabolica, patologia la cui definizione è molto cambiata nel corso degli anni.
La sindrome metabolica è una patologia ben precisa, oppure si tratta di una condizione che riunisce in sé problematiche differenti?
La sindrome metabolica non è una vera e propria malattia, bensì un insieme di fattori di rischio, la cui presenza contemporanea predispone a una maggiore probabilità di sviluppare sia eventi cardiovascolari, quali ad esempio l’infarto o l’ictus, sia il diabete. La prima definizione di questa sindrome venne data nel 1923, ma da allora ha subito numerose modifiche, perché di volta in volta si tendeva a dare maggiore o minore importanza a un fattore rispetto agli altri.
Ad esempio, per lungo tempo si è focalizzata l’attenzione sulla cosiddetta insulino-resistenza, ovvero una condizione in cui l’insulina – ormone normalmente prodotto dal nostro organismo per metabolizzare gli zuccheri – svolge un effetto inferiore al normale, costringendo l’organismo a rilasciarne una quantità eccessiva, che porta ad alterazioni ematiche, quali l’iperglicemia (valori elevati di zuccheri nel sangue).
In altri periodi la definizione di sindrome metabolica si è invece fondata soprattutto sul problema dell’obesità viscerale, ovvero sul grasso depositato a livello del ventre, attribuendo grande importanza alla circonferenza addominale, considerata specchio fedele della distribuzione del grasso a livello degli organi interni. Tra due persone, di altezza e peso simili, quella con maggiore quantità di grasso addominale presenterà infatti anche un rischio superiore di sviluppare eventi cardiovascolari. Insomma, negli ultimi 90 anni si sono alternate circa 20 definizioni differenti di questa sindrome.
E oggi qual è la “tendenza” scientifica?
Attualmente sono due i criteri diagnostici più utilizzati. Il primo risale al 2001 ed è quello identificato dalla cosiddetta ATP III, un panel di esperti per la prevenzione delle malattie cardiovascolari. Prevede che per la diagnosi di sindrome metabolica debbano essere presenti almeno tre dei seguenti criteri:
- Circonferenza addominale: uomini >102 cm; donne >88 cm
- Trigliceridi: ≥ 150 mg/dl
- Colesterolo HDL: uomini < 40 mg/dl; donne < 50 mg/dl
- Glicemia (a digiuno): ≥ 110 mg/dl
- Ipertensione arteriosa: ≥ 130/85 mmHg.
Qual è la diffusione della sindrome metabolica?
Per quanto riguarda l’epidemiologia, possiamo affermare che i dati del 2010 – ultima stima effettuata – ci dicono che globalmente circa il 34% della popolazione è affetta da sindrome metabolica.
Questa percentuale è valida se consideriamo i più rigidi criteri dell’OMS, se invece consideriamo i criteri dell’ATP III, sostanzialmente simili, solo leggermente meno restrittivi, la prevalenza scende a circa il 18%.
L’Italia sostanzialmente rispecchia l’andamento mondiale, ma riscontriamo un importante gradiente territoriale, con una situazione peggiore al sud, dove c’è una cultura inferiore per quanto riguarda l’attività fisica. Inoltre nel meridione si tende a mangiare di più, e per una questione economica sta crescendo anche il consumo del cosiddetto “cibo spazzatura”, ricco di grassi nocivi e carboidrati.
Per quanto riguarda l’età, la fascia in cui maggiormente si riscontra la sindrome metabolica, è quella compresa tra i 65 e i 74 anni, soprattutto nella popolazione femminile.
E i giovani? Quali sono le prospettive future?
Se non interverrà qualche cambiamento negli stili di vita, la situazione andrà certo peggiorando.
I dati dicono che oggi un terzo dei bambini è in sovrappeso o addirittura obeso e, lasciando perdere ogni riflessione di carattere sociale e familiare, se questo andamento non verrà corretto, ci aspettiamo sicuramente un aumento della sindrome metabolica nei prossimi anni. Già adesso stiamo riscontrando nei bambini e negli adolescenti alcune patologie in passato esclusive dell’età adulta: ipertensione arteriosa, colesterolo alto, diabete di tipo 2, dovuto a un eccesso di carboidrati e a una ridotta attività fisica.
L’aspetto più preoccupante non è però il semplice aumento dei soggetti affetti da sindrome metabolica, quanto la crescita degli eventi causati dalla presenza dei fattori di rischio: quindi dovremo aspettarci più infarti, più ictus, più morti e più disabilità per queste patologie, che invece potrebbero essere ampiamente prevenibili.
In estrema sintesi, ripetiamo le cause su cui si deve intervenire per prevenire la sindrome metabolica
A parte la possibilità di una predisposizione genetica, bisogna insistere con i giovani affinché adottino stili di vita adeguati, abbandonando alimentazione scorretta e sedentarietà, un’accoppiata davvero “letale”.
I rischi della sindrome metabolica riguardano soltanto i problemi cardiovascolari?
L’insieme dei fattori caratteristici di questa sindrome predispone senza dubbio a un maggior rischio di sviluppare eventi cardiovascolari, ma è un predittore ancor più significativo per quanto riguarda il diabete. Il rapporto fra questi due eventi è stimato in circa 8 a 1, e ciò significa che, se si è affetti da sindrome metabolica, risulta 8 volte “più facile” sviluppare il diabete rispetto a un evento cardiovascolare.
Dal punto di vista alimentare esiste una forma di prevenzione specifica per il diabete?
Le azioni che si possono mettere in atto con la dieta sono sostanzialmente comuni sia alla prevenzione del diabete, sia a quella dell’ipertensione e dell’ipercolesterolemia, o comunque delle dislipidemie su base non genetica. Una sorta di prevenzione “trasversale” a tutte queste patologie.
Ciò che si raccomanda è in ogni caso di seguire la tanto celebrata dieta mediterranea, quindi privilegiare i carboidrati complessi, quali il pane e la pasta, preferibilmente integrali, ma anche i legumi, perché le fibre rallentano l’assorbimento dei carboidrati e la loro trasformazione in zuccheri, riducendo la formazione dei grassi.
Da evitare invece un consumo eccessivo di zuccheri semplici e carni rosse, mangiando pesce almeno due volta la settimana, oltre alle famose cinque porzioni di frutta e verdura; utilizzare infine l’olio extravergine di oliva, dalle note proprietà antiossidanti, in grado di pulire le arterie e prevenire le tanto temute placche.
E se la dieta non basta?
Mangiare sano è fondamentale, e noi italiani abbiamo la fortuna di disporre di molti cibi ricchi di sostanze antiossidanti in grado di rallentare l’invecchiamento dei tessuti e delle arterie, ma l’alimentazione da sola potrebbe non essere sufficiente. In questi casi, per evitare l’insorgere della patologia, è necessario ricorrere ad azioni preventive rappresentate da un’integrazione con prodotti di qualità che forniscano un aiuto supplementare.
Per quanto riguarda le dislipidemie e l’ipercolesterolemia in particolare, i risultati migliori si ottengono con gli integratori di nuova generazione che, oltre a ridurre l’assorbimento del colesterolo, ne diminuiscono anche la produzione da parte dell’organismo.
L’efficacia di questi prodotti deriva dal contenuto di alcune sostanze di origine vegetale che, da un lato (fitosteroli/fitostanoli), sono in grado di limitare l’assorbimento intestinale dei grassi introdotti con i cibi, mentre dall’altro (monacolina K, ottenuta dal riso rosso fermentato) svolgono un’azione simile alle statine, riducendo la sintesi stessa del colesterolo. Grazie a queste risorse siamo oggi in grado di limitare la comparsa dei fattori di rischio della sindrome metabolica – la dislipidemia, l’obesità, l’elevata glicemia a digiuno – riuscendo così a evitare che questi poi progrediscano in eventi.
Gli integratori, privi assolutamente di effetti collaterali documentati e sicuri nel lungo termine, rappresentano dunque senza dubbio un aiuto importante in fase di prevenzione.
Per combattere invece più specificamente i trigliceridi, sono poi disponibili formulazioni farmaceutiche bioequivalenti di altissima qualità a base di Omega-3, che riescono a ridurne sensibilmente i livelli nel sangue.
Che approccio hanno i pazienti a questo problema? Quanta consapevolezza c’è dei rischi associati alla sindrome metabolica?
Soprattutto al Sud, la percezione da parte del paziente del rischio, ad esempio, di essere in sovrappeso è veramente bassissima, e spetta al medico “virtuoso” adottare metodi “banali” ma efficaci, come misurargli la circonferenza dell’addome e la pressione, commentare insieme a lui i valori “base” degli esami del sangue: trigliceridi, colesterolo e glicemia, per metterlo in guardia.
Con questi piccoli accorgimenti bastano 5 minuti per valutare il rischio futuro di quel paziente; che ci sia o meno consapevolezza da parte sua, la diagnosi di sindrome metabolica serve in ogni caso per fare prevenzione, facendogli comprendere che avere la “pancetta”, non è soltanto un discorso estetico, ma può portare a problematiche davvero serie.
Ci sono sintomi che possono spingere il paziente a rivolgersi a un medico?
Sfortunatamente in pratica non esistono sintomi, nemmeno in presenza di patologia franca: siamo di fronte a veri e propri “killer silenziosi”, ed è per questo che se un paziente si rivolge a noi, ad esempio per disturbi di pressione, si effettuano anche tutti gli altri controlli, così da poter scoprire se nella sua storia clinica c’è qualcosa che non va, e nel caso indirizzarlo a uno Specialista.
È soprattutto con la comunicazione e le campagne di prevenzione che diventa possibile intercettare molte persone che ritengono di essere sane, perché appunto non hanno alcun sintomo, ma in realtà presentano una serie di condizioni che messe insieme diventano altamente rischiose.
L’anno scorso, ad esempio ha riscosso un grande successo in questo senso la Prima Giornata Mondiale della Sindrome Metabolica “Un metro per la vita”, organizzata dalla Società Italiana di Medicina Interna (SIMI) e dalla Federazione delle Associazioni dei Dirigenti Ospedalieri Internisti (FADOI), con la collaborazione della Croce Rossa Italiana, durante la quale le persone potevano effettuare visite ed esami gratuiti di screening.
Un messaggio finale?
Per concludere sottolineiamo una volta ancora che il compito di noi medici è “stressare” il concetto che, per valutare il rischio, non bisogna considerare singoli valori, magari solo leggermente fuori norma: è l’insieme di diverse alterazioni, apparentemente poco significative, che messe insieme possono costituire una vera “bomba a orologeria”. Perché, è bene ricordarlo ancora una volta, in medicina 2+2 non fa mai 4, ma spesso la somma può raggiungere valori esponenziali, specie quando si parla di rischio cardio-metabolico.
Ultimo aggiornamento 26/05/2016